Da un paio di mesi circa la legge 22 dicembre 2017, numero 219, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, ha compiuto 5 anni [1]. L’articolo 4 indica chiaramente che ogni persona maggiorenne in grado di intendere e volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di esprimersi, può con le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), dichiarare la propria volontà su cure adatte a prolungare la vita, anche se non ci fosse nessuna speranza di guarigione o miglioramento.
A che punto siamo
Ad ottobre 2022 sono poco più di 250mila le disposizioni anticipate di trattamento depositate nei Comuni italiani e l’88 per cento di queste sono state trasferite alla Banca dati nazionale delle DAT [2]. E questo a fronte del fatto che tra le principali paure degli italiani il rischio di invalidità e di non autosufficienza riguarda il 53 per cento della popolazione [3]. Anche in uno studio pilota dello CSeRMeg (Centro studi e ricerche in medicina generale) del 2009, l’85 per cento degli assistiti reclutati da medici di famiglia si dichiarò favorevole a redigere un testamento biologico [4]. In uno studio successivo la metà degli intervistati non sapeva bene cosa fosse un testamento biologico, ma il 77,5 per cento avrebbe approvato l’interruzione delle cure se si fosse trovato in uno stato di perdita irreversibile della coscienza.
Su questa rivista sono già state approfondite le ragioni della scarsa adesione dei cittadini [5,6] e si rimanda alla lettura degli articoli citati, dove sono anche presentati due esempi di moduli da cui è possibile trarre spunto per immaginare le proprie disposizioni.
Tuttavia, la carenza di DAT depositate nella Banca dati non solo è l’espressione di uno scarso interesse e/o di una scarsa conoscenza da parte dei cittadini, ma diventa anche un problema per i colleghi ospedalieri nei reparti di degenza e soprattutto nei reparti di terapia intensiva, dove spesso accedono persone non in grado di esprimere un consenso informato.
Già alcuni anni fa un importante studio [7] sul percorso di fine vita di oltre tremila pazienti nelle terapie intensive italiane evidenziava come meno del 10 per cento delle persone ricoverate avesse partecipato attivamente durante la degenza alle scelte di cura. Il paziente era quindi quasi sempre “il grande assente”.
La carenza di DAT depositate nella Banca dati diventa anche un problema per i colleghi ospedalieri nei reparti di degenza e soprattutto nei reparti di terapia intensiva, dove spesso accedono persone non in grado di esprimere un consenso informato.
Non è soltanto il coma a rendere impossibile la comunicazione, ma anche alterazioni acute e meno marcate dello stato di coscienza, come il delirium, oppure condizioni che richiedono sedazione farmacologica o semplicemente situazioni in cui è molto difficile sostenere una conversazione di una certa importanza. Basti pensare all’insufficienza respiratoria acuta con necessità di supporto ventilatorio non invasivo: la comunicazione è possibile, ma non è sicuramente la situazione ideale per discutere di scelte di cura.
Lo sforzo di ricostruire la volontà presunta di una persona – alla luce dell’esito previsto – ricade spesso sui curanti, con il supporto dei famigliari. Il processo di decisioni condivise (shared decision-making) mira a garantire una cura il più possibile appropriata e proporzionata, nel miglior interesse della persona malata. In assenza di informazioni, lo shared decision-making è gravato da una notevole incertezza, che pesa (anche emotivamente) sui clinici e sulla famiglia.
Pur essendo le DAT uno strumento per sua stessa natura imperfetto – in quanto non equiparabile a un consenso informato attuale – sono tuttavia molto preziose, soprattutto se contengono la nomina di un fiduciario.
Per queste ragioni noi pensiamo che sia compito dei medici, quelli di famiglia principalmente, informare le persone che chiedono dei chiarimenti sulle possibilità che la legge 219 offre, cercando di affrontare dubbi e perplessità che facilmente si accompagnano a questa scelta.
In uno sondaggio svolto a Torino, nel 2015, da una collega del Corso di formazione specifica in medicina generale [8], che coinvolse 80 medici di medicina generale, corrispondenti ad una popolazione si circa 96.000 cittadini dell’Asl TO2, risultò che l’87,5 per cento dei professionisti sarebbero stati interessati a conoscere una legge inerente al fine vita, e che a metà di essi era già capitato di raccogliere DAT dai propri assistiti, molti dei quali sarebbero stati intenzionati a sottoscriverle, se adeguatamente informati; i colleghi ritenevano di poter raccogliere da 10 a 100 testamenti ciascuno.
La legge non basta
La legge 219 è una legge chiara, scritta in un linguaggio semplice e comprensibile. In soli otto articoli definisce, in forma esauriente e puntuale, lo stato dell’arte in tema di consenso informato (articolo 1), terapia del dolore (articolo 2), minori e incapaci (articolo 3), disposizioni anticipate di trattamento o DAT (articolo 4) e pianificazione condivisa delle cure (articolo 5). Gli ultimi tre articoli riguardano l’applicazione della legge. In particolare nell’articolo 1 il comma 8 dice solo: “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” e subito dopo si afferma che le strutture sanitarie devono assicurare la formazione del personale anche in materia di relazione e comunicazione con il paziente. Obiettivo purtroppo in larga parte disatteso negli anni.
La legge 219 stabilisce il diritto di redigere le proprie DAT: è necessaria un’informazione adeguata ai cittadini perché possano farlo, se lo desiderano.
Pertanto, visto che sono i medici i primi a condividere l’importanza delle DAT, è necessario che proprio i medici le facciano conoscere. Si dirà che la pandemia covid-19 ha rivelato l’inadeguatezza del nostro Servizio sanitario nazionale e ha incrementato gli adempimenti burocratici. Vero, ma non dimentichiamo che, nella stragrande maggioranza dei casi, se non c’è tempo di comunicazione non è possibile la cura e che “grazie alla legge 219, siamo tutti un po’ più liberi di prima e nessuno viene danneggiato”[9].
Quali potrebbero essere le proposte per rendere nota alle persone la possibilità di dichiarare le proprie volontà? Mettere a disposizione nelle sale di attesa materiale informativo per cercare di raggiungere il maggior numero di persone possibile? Organizzare degli incontri con la popolazione per sensibilizzarli all’argomento? Aprire uno “sportello DAT” presso l’Ordine al quale medici e cittadini possano rivolgersi per chiarire eventuali dubbi e/o incertezze?
Ci aspettiamo che i lettori valutino queste idee e, sulla base delle loro pratiche o delle loro ipotesi, propongano ulteriori suggerimenti.
Giuliano Bono, medico di medicina generale Marco Vergano, medico anestesista e rianimatore