Covid-19, Biden e il Paxlovid
"Non è sempre quello che pensi", scrive John Mandrola riflettendo sulla lezione più importante da trarre dal caso clinico del presidente statunitense

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"Non è sempre quello che pensi", scrive John Mandrola riflettendo sulla lezione più importante da trarre dal caso clinico del presidente statunitense
A fine luglio il presidente degli Stati Uniti Joe Biden era risultato positivo al covid-19. La notizia, rimbalzata su tutti media, riportava che gli era stato prescritto il Paxlovid, il primo antivirale orale al mondo a essere autorizzato per l’uso contro covid-19. Dopo cinque giorni di terapia il tampone era risultato negativo, ma a distanza di pochi giorni il presidente era nuovamente positivo. Una prova che la terapia non era state efficacia. Su Sensible Medicine, il cardiologo John Mandrola ha raccolto le sue riflessioni sul valore del Paxlovid per aver insegnato il concetto di “validità esterna” delle prove di efficacia. Spesso le evidenze dei trial clinici vengono considerate il gold standard ma non necessariamente valgono per ogni singolo paziente.
Sensible Medicine ha voluto condividere con i lettori de ilpunto.it la traduzione del post.
La recente infezione virale del presidente Biden e il fatto che abbia ricevuto il nirmatrelvir (Paxlovid) come terapia offrono una lezione fondamentale sull’evidence-based practice.
Questa cruciale lezione riguarda il modo in cui i dottori utilizzano i dati ottenuti dai trial clinici nella pratica clinica reale. Si tratta della cosiddetta “external validity” (validità esterna) di uno studio, ovvero il grado di applicabilità dei risultati ottenuti in un trial ai pazienti che si incontrano ogni giorno.
Per esempio, uno studio clinico può dimostrare che un farmaco o una procedura danno un beneficio, ma il nostro lavoro è poi di decidere se e come i risultati possono essere applicati al paziente che abbiamo di fronte.
Poniamo che un trial clinico abbia un grado soddisfacente di validità interna, in altre parole è condotto bene e i risultati della ricerca sono validi, statisticamente solidi e privi di bias. Siamo solo al punto di partenza.
Raggiungere una validità esterna è difficile, perché tipicamente gli studi clinici selezionano pazienti motivati che hanno maggiori probabilità di ottenere dei benefici dalla terapia in questione. I ricercatori che conducono gli studi clinici spesso escludono i pazienti che soffrono di forme più lievi della malattia, quelli che non hanno un sostegno sociale o quelli che hanno anche molte altre patologie.
Non si tratta solo del fatto che gli studi clinici arruolano i pazienti ideali; infatti, i medici devono anche tenere in considerazione l’ambiente in cui si svolge il trial clinico, quello che io definisco come “best-case scenario”.
Nei trial clinici il paziente ideale è curato da clinici motivati, spesso gli stessi che hanno proposto il trattamento in studio. Solitamente i trial clinici coinvolgono infermieri e farmacisti ricercatori che si occupano del piano terapeutico, assicurandosi che i pazienti abbiano il follow up e che non ci siano interazioni farmacologiche.
Il primo studio clinico su questo farmaco, l’EPIC HR, ha portato risultati vincenti. L’antivirale aveva ridotto il numero di ospedalizzazioni e decessi tra i pazienti con covid-19 di ben l’89 per cento rispetto ai risultati ottenuti con il placebo. Tutti i tredici decessi registrati nel corso dello studio rientravo nel gruppo che aveva ricevuto il placebo. La conclusione immediata sarebbe quindi che dovremmo dare questo farmaco a tutti pazienti che hanno contratto il virus.
Tuttavia anche questo studio clinico, per quanto i risultati siano molto positivi, richiede importanti precisazioni: lo studio aveva infatti arruolato pazienti non vaccinati con almeno un fattore di rischio alto (età avanzata o un indice di massa corporea elevato, una malattia cardiovascolare, ecc.) ed era stato condotto nella seconda metà del 2021, molto prima che la variante omicron meno virulenta divenisse dominante.
Ora la questione è capire se il farmaco abbia gli stessi effetti su pazienti vaccinati con una diversa variante del virus.
Dati recenti suggeriscono che l’efficacia di questa terapia antivirale cambi in base alle caratteristiche del paziente. L’azienda farmaceutica ha interrotto l’arruolamento di pazienti all’EPIC-SR, lo studio clinico su adulti non vaccinati a basso rischio o pazienti vaccinati con almeno un fattore di rischio. In un comunicato stampa, la Pfizer ha dichiarato che non era stato raggiunto l’endpoint primario della riduzione per quattro giorni consecutiva di tutti i sintomi auto riportati dai pazienti ed era stato osservato un tasso molto basso di ospedalizzazioni o mortalità nella popolazione a rischio standard.
La lezione da portare a casa è la seguente: lo stesso farmaco ha dato risultati diversi a seconda del suo impiego in pazienti differenti.
La biomedicina è piena di esempi di questo tipo. Nei seguenti paragrafi ne descrivo tre che coinvolgono il mio campo e uno di medicina oncologica.
Gli studi determinanti che hanno mostrato una riduzione del tasso di mortalità con l’utilizzo del defibrillatore cardiaco impiantabile rispetto alle cure standard, SCD-HeFT e MADIT II, hanno coinvolto per la maggior parte pazienti ambulatoriali di sesso maschile di 60 e 64 anni rispettivamente e con un buon livello di funzionalità renale. I risultati ottenuti si possono quindi applicare a tutti i pazienti (o anche solo alla maggior parte di questi) affetti da bassa frazione di eiezione o scompenso cardiaco?
Probabilmente no. Questo sottostudio del SCD-HeFT ha riscontrato che l’utilizzo dell’Icd non ha portato alcun beneficio significativo ai pazienti con scarsa performance nel test del cammino di 6 minuti, un surrogato dello stato di buona salute. Questa metanalisi non ha osservato alcun beneficio statisticamente significativo nell’utilizzo dell’Icd in pazienti con bassa funzionalità renale rispetto a pazienti con normale funzionalità renale.
Anche i pazienti a basso rischio potrebbero non ricevere un beneficio sostanziale dall’Icd. Un gruppo di ricerca ha utilizzato una scala per valutare il rischio nei pazienti all’interno dello studio MADIT II e ha osservato una curva a U del beneficio dall’impianto dell’ICD. Questo studio “dai risultati positivi” ha anche riscontrato che l’efficacia dell’ICD non cambia rispetto a quella osservata nei pazienti in trattamento standard con score di rischio sia alto che basso.
Il trial CASTLE-AF ha dimostrato che l’ablazione della fibrillazione atriale porta un enorme beneficio rispetto alla terapia medica in pazienti con scompenso cardiaco che hanno un Icd. La diminuzione del 38 per cento nei tassi di mortalità e di ospedalizzazioni per scompenso cardiaco osservata nel gruppo dell’ablazione costituisce infatti un dato convincente.
Chi sono però questi pazienti che hanno avuto dei risultati tanto migliori con l’ablazione?
Si tratta di individui giovani (64 anni), per la maggior parte di sesso maschile e non obesi, pazienti che potevano tollerare la terapia medica dello scompenso cardiaco. Sono anche soggetti piuttosto rari. Infatti gli autori dello studio hanno dovuto cercare tra più di 3000 soggetti per riuscire a selezionare circa 400 pazienti. I soggetti arruolati non rappresentano quindi la maggior parte dei pazienti affetta da scompenso cardiaco e fibrillazione atriale che vedo nella pratica clinica di tutti i giorni.
Gli studi clinici controllati con placebo hanno confermato un beneficio incrementale con l’uso di quattro classi di farmaci in pazienti con scompenso cardiaco dovuto a ridotta funzione cardiaca. Eppure la maggior parte dei pazienti coinvolti in questi studi è costituita da soggetti talmente stabili da essere in grado di accedere a un ambulatorio. Alcuni trial hanno avuto periodi di rodaggio per poter selezionare pazienti che tolleravano il farmaco.
Questo registro di dati sulla pratica nel real world ha osservato che solo l’1 per cento dei pazienti assumeva le dosi massime di tutte e quattro le classi dei farmaci. Alcuni esperti di scompenso cardiaco lamentano il fatto che la somministrazione di questi farmaci sia tuttora bassa.
Una ragione per questo basso livello di somministrazioni è che i medici sono ottusi o pigri.
La ragione più probabile è che il disegno dei trial sullo scompenso cardiaco sia pensato per dimostrare se una terapia funziona. Per fare questo si devono selezionare i pazienti che hanno maggiori probabilità di trarne beneficio, con un attento follow up all’interno dello studio.
Questo approccio terapeutico non rappresenta il mondo reale. Si consideri il fatto che solo il cambio del dosaggio dei farmaci risulta difficile da affrontare in assenza di infermieri e farmacisti ricercatori.
L’oncologo e accademico Bishal Gyawali ha scritto spesso sul problema dell’interpretazione delle evidenze e dei dati ottenuti da pazienti ideali in trial clinici su chemiterapici. Mi ha inviato l’esempio di un farmaco per il trattamento del cancro al fegato, sorafenib, la cui efficacia è stata dimostrata in uno studio clinico pubblicato nel 2008.
I pazienti affetti da tumore al fegato hanno basse prospettive di vita, per cui con l’introduzione di una terapia efficace ci si aspetterebbe di osservare una riduzione delle morti. Eppure le morti per tumore al fegato sono di fatto aumentate tra il 2011 e il 2015. Com’è possibile?
Una ragione potrebbe essere che lo studio clinico originario era stato condotto su pazienti ideali che erano meno malati dei tipici soggetti affetti da tumore al fegato.
Infatti, grazie all’utilizzo di un database osservazionale, un gruppo di ricerca aveva riscontrato che il tasso di sopravvivenza del gruppo che aveva ricevuto il placebo dello studio clinico originario era maggiore di quello dei pazienti del real world trattati con il farmaco. Fai una pausa e rileggi questa frase.
Nessuno di questi esempi è nefasto. Non metto in dubbio i risultati di nessuno di questi studi; nelle popolazioni esaminate in quel momento e in quel contesto, i benefici corrispondono a quelli che sono stati riportati.
La sfida consiste nel capire come trasferire le evidenze ottenute in un contesto specifico, come lo studio clinico, alle persone nel real world.
Spesso dico che ciò che separa i medici dai chiromanti è l’impiego delle evidenze. La scoperta degli studi randomizzati controllati è forse una delle migliori invenzioni di tutti i tempi per il campo medico. Io amo le prove!
Eppure l’uso delle evidenze non potrà mai essere tanto algoritmico quanto le linee guida, le misure di controllo della qualità o quanto le notizie dei giornali lo facciano apparire.
Il fatto che una figura di alto profilo come il presidente degli Stati Uniti abbia ricevuto una terapia che si è dimostrata efficace in gruppi selezionati con un certo set di criteri, ma che potrebbe non esserlo nel suo caso specifico, dà a tutti l’opportunità di apprezzare la complessità e l’incertezza che si presentano nell’utilizzare i risultati ottenuti da studi clinici per la cura del paziente che ci troviamo davanti.
Si tratta di uno degli aspetti più difficili del lavoro dei dottori di oggi… e credo che questa sia una buona cosa. Se fosse semplice, dei robot o delle macchine potrebbero fare il nostro lavoro.
John Mandrola
Baptist Health Louisville, Kentucky (Usa)
Cardiologo elettrofisiologo
Writer/podcaster per @Medscape
#MedicalConservative
Questo articolo è la traduzione del post di John Mandrola pubblicato su Sensible Medicine con il titolo “The Most Important Lesson of President Biden’s Paxlovid Treatment”. Per gentile concessione di Sensible Medicine.
A cura di Maria Teresa Busca
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