Covid-19: servono dati grezzi su farmaci e vaccini
Sul BMJ un appello a firma di Peter Doshi, Fiona Godlee e Kamran Abbasi chiede maggiore trasparenza. E i medici cosa possono fare?

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Sul BMJ un appello a firma di Peter Doshi, Fiona Godlee e Kamran Abbasi chiede maggiore trasparenza. E i medici cosa possono fare?
Foto di Marco Vergano
La denuncia parte da un editoriale del BMJ firmato dal ricercatore Peter Doshi e da Fiona Godlee e Kamran Abbasi rispettivamente past editor e chief editor della rivista [1]. Con i vaccini contro covid-19 si è ripetuta una storia che avevamo già vissuto con il Tamiflu [2]. I dati a livello di singolo partecipante agli studi, pur essendo resi anonimi, per questi nuovi prodotti rimangono inaccessibili sia a ricercatori, medici che ai policy maker e ai cittadini. E rimarranno tali anche nei prossimi anni. Ciò significa che qualsiasi analisi indipendente potrà essere effettuata solo su statistiche già elaborate e pubblicate nelle riviste scientifiche.
Dal Tamiflu a oggi abbiamo fatto progressi nella condivisione dei dati clinici: si sono impegnate le riviste scientifiche, gli enti regolatori con nuove policy e sono sorti nuovi portali volti alla condivisione del dato, ma non è stato sufficiente. “L’errore è stato fatto a monte, nel momento in cui le agenzie regolatorie dovevano prendere decisioni circa l’introduzione dei nuovi farmaci. Quello era il momento per porre dei vincoli alle aziende”, commenta Eva Pagano, economista sanitario che lavora presso l’Epidemiologia clinica e valutativa, Aou Città della salute e della scienza di Torino.
Di cosa parliamo quando ci riferiamo al Tamiflu? | Iniziamo col dire che – per chi non lo ricordasse – Tamiflu è il nome commerciale di oseltamivir, un farmaco antivirale registrato per la capacità di agire sui sintomi influenzali. La campagna avviata dalla rivista inglese The BMJ mirava a sollecitare le aziende a rilasciare i dati degli studi clinici che avevano portato all’approvazione di due farmaci antinfluenzali di cui erano state stoccate grandi quantità di confezioni a livello globale, Tamiflu e Relenza. La campagna è durata diversi anni e ha contribuito a costruire un ampio movimento di opinione per una maggiore trasparenza dei dati degli studi clinici. La campagna del BMJ ha anche in certo modo reso possibile la produzione della prima revisione Cochrane basata interamente su rapporti di studi clinici e dati regolatori [3]. La campagna del BMJ ha portato a cambiamenti nell’atteggiamento sulla trasparenza da parte di diverse aziende farmaceutiche e ha suggerito altre richieste di dati a livello internazionale. Infine, l’iniziativa della rivista della British Medical Association ha accresciuto la consapevolezza dell’importanza dell’accesso indipendente ai dati degli studi registrativi, evidenziando in particolare le discrepanze tra quello che viene pubblicato dalle riviste e i rapporti sottomessi alle agenzie regolatorie.
L’editoriale del BMJ raccoglie le prove per dimostrare che gli enti regolatori hanno accesso a dati grezzi per prendere decisioni informate circa l’introduzione del farmaco. E, allo stesso tempo, denuncia la difficoltà nell’accedere a questi dati nonché la reticenza degli enti regolatori a condividerli. E poi, oltre alla condivisione dei dati, anche il processo decisionale degli enti regolatori deve essere più trasparente. Doshi, Goodle e Abbasi si chiedono perché gli enti regolatori e gli organismi di sanità pubblica non abbiano rilasciato dettagli circa il motivo per cui gli studi sui vaccini non sono stati progettati per testare l’efficacia contro l’infezione e la diffusione di sars-cov-2. Una modalità di azione che ha ricadute importanti sulla collettività: alla luce di questi risultati i paesi avrebbero appreso prima l’effetto dei vaccini sulla trasmissione e sarebbero stati in grado di pianificare di conseguenza.
“Anche se siamo in un contesto di emergenza non possiamo essere esenti dalle buone pratiche”, tuona The BMJ mentre richiama le aziende farmaceutiche e gli enti regolatori alla pubblicazione dei dati grezzi – reclamando inoltre policy riguardanti i vaccini che siano basate sulle evidenze. E lo stesso fa l’Associazione Alessandro Liberati – Cochrane affiliate centre (AssociALi) che si unisce all’appello [4].
“I medici possono teoricamente influire molto sulle politiche delle case farmaceutiche perché hanno un ruolo fondamentale nella prescrizione dei farmaci. Ma sarebbe necessaria una forte presa di coscienza collettiva a livello internazionale e l’appoggio della politica nel richiedere maggiore trasparenza su tutto il processo di ricerca che porta all’approvazione dei farmaci, dalla definizione dei protocolli alla tempestiva accessibilità dei dati degli studi” commenta Giovannino Ciccone, direttore del Centro di riferimento per l’epidemiologia e la prevenzione oncologica in Piemonte della Città della salute e della scienza di Torino.
“Gli stessi medici possono associarsi ad appelli come quelli dell’editoriale del BMJ e dell’Associazione Alessandro Liberati, non limitandosi però a delle richieste di principio”, afferma Rodolfo Saracci, epidemiologo di fama internazionale, già presidente della International epidemiological association e già direttore dell’Unità di epidemiologia analitica dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro con sede a Lione. “I medici devono reclamare l’attivazione di uno o più gruppi di lavoro coinvolgenti le parti interessate – ricercatori, industrie, autorità sanitarie, associazioni civiche e di pazienti eccetera -, miranti a delineare delle soluzioni concretamente fattibili per un accesso pubblico tempestivo ai dati generati dagli studi sui prodotti delle industrie farmaceutiche, vaccini compresi”.
Secondo Ciccone “il compito di accedere, visionare e rivalutare i dati degli studi dovrebbe essere svolto innanzitutto da agenzie indipendenti, con competenze e finanziamenti pubblici adeguati”. Il problema dell’accesso ai dati su covid-19, in realtà, nasconde un difetto ancora più grande.
“L’anomalia di fondo del sistema è rappresentata dalla coincidenza del ruolo (almeno doppio) delle case farmaceutiche di essere contemporaneamente produttrici di farmaci e responsabili della produzione di dati sulla loro efficacia e sicurezza”, spiega Ciccone. “Per tentare di trovare soluzioni equilibrate a questa anomalia è necessaria una seria iniziativa della politica, della comunità scientifica e dei cittadini. Una maggiore indipendenza dei medici (e delle istituzioni) dalle case farmaceutiche rappresenterebbe un primo passo in questa direzione”.
I dati dei vaccini sono parte di un discorso molto più ampio che riguarda tutta la filiera del farmaco.
“La mancanza di trasparenza è diffusa nel settore farmaceutico: riguarda gli studi realizzati per registrare i farmaci, tanto quanto per quelli volti a valutarne l’efficacia. Non c’è trasparenza nemmeno dopo, quando è tempo di valutare l’utilizzo dei farmaci, perché il sistema sanitario stesso non rende accessibili i suoi dati e non è impostato per fare monitoraggio”, denuncia Pagano ampliando la visione del problema.
Quale policy seguono le agenzie regolatorie principali? | Tra le autorità regolatorie, è molto probabile che la Food and drug administration (Fda) statunitense riceva la maggiore quantità di dati grezzi ma non li metta mai spontaneamente a disposizione della comunità scientifica. Come spiega The BMJ, solo dopo una freedom of information request in merito ai dati sui vaccini di Pfizer, la Fda si è offerta di rendere pubbliche 500 pagine al mese: considerata la quantità di dati in suo possesso, si sarebbe trattato di un processo che avrebbe richiesto decenni per essere completato. Quale giustificazione per un percorso di questo tipo? La ragione presentata ai giudici era che la pubblicazione dei dati sarebbe stata lenta a causa della necessità di prima effettuare un controllo sui dati sensibili presenti nel database. Tuttavia, un giudice ha recentemente ha ordinato alla Fda la pubblicazione dei dati a un ritmo di 55mila pagine al mese. Va detto però che le autorità regolatorie del Canada e europea (European medicines agency – Ema) garantiscono un grado di trasparenza e una disponibilità molto superiore. È interessante – per approfondire ulteriormente – leggere i risultati di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori statunitensi di prestigiose università, che hanno analizzato quanto influiscano le caratteristiche delle aziende farmaceutiche (dimensioni, tipologia, ecc.) nella maggiore o minore disponibilità a condividere dati [5].
“Per fare chiarezza bisognerebbe organizzare il sistema in modo diverso perché ormai la capacità di raccogliere i dati e tracciarli è molto elevata”. È una questione di organizzazione di un processo, ma anche di mobilitazione di persone competenti e dedicate. È un problema di fondi.
E il Piano nazionale di ripresa e resilienza dovrebbe considerare anche investimenti in tale ambito. L’interoperabilità dei dati non può riguardare solo la diagnosi o il ricovero di un paziente. “Il farmaco è un elemento essenziale nel percorso assistenziale: non possiamo continuare a ignorare i dati sull’uso di un farmaco, dati che non sono sfruttati per mancanza di trasparenza e in nome della privacy”. Pagano aggiunge che “non ci sono reali minacce per la tutela della privacy individuale: le analisi di correlazione dei dati sono fondamentali per trarre conclusioni circa l’uso dei farmaci in relazione alla storia e alla tipologia di pazienti, agli eventi avversi, agli esiti. Oggi si raccolgono informazioni parziali, usabili in modo limitato. È importante tutelare la privacy individuale, senza però penalizzare il diritto a un miglioramento delle cure per la collettività”.
Perché ciò possa avvenire nel rispetto di tutti, occorre formare personale dedicato, stabilire i metodi di utilizzo e condivisione del dato, con un servizio riconosciuto dal punto di vista istituzionale che si occupa di analizzare i dati nel modo e con le competenze giuste. E per realizzare tutto questo occorrono finanziamenti dedicati.
Giulia Annovi, Il Pensiero Scientifico Editore
Bibliografia
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A cura di Maurizio Mori
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