La pandemia sembra attenuarsi. Anche se ancora non è il momento di bilanci definitivi, possiamo intanto iniziare a interpretare quel che abbiamo alle spalle. Intanto, notiamo che il discorso pubblico si è arricchito di diversi termini, anche se di alcuni ne avremmo fatto a meno. Tra le parole più pronunciate dagli infettivologi e dagli epidemiologi, una è stata senz’altro immunità, insieme ai suoi correlati (risposta immunitaria, immunità di gregge e così via).
Come sappiamo, i vaccini stimolano appunto la risposta immunitaria dell’organismo, contrastando l’infezione virale attraverso il raggiungimento di una immunità generalizzata, dovuta appunto alla protezione vaccinale. In quest’occasione, la disponibilità estremamente precoce di vaccini ad hoc ha senz’altro cambiato le sorti della pandemia.
Se qualsiasi operatore sanitario ha chiari i meccanismi di fondo delle immunoterapie, potrebbe non avere la medesima consuetudine con l’uso metaforico della stessa parola, utilizzo anch’esso molto frequente sui media, in qualche misura rilevante anche nell’atteggiamento delle persone pregiudizialmente ostili alla vaccinazione. Lo ha ben spiegato Rocco Ronchi [1], professore ordinario di Filosofia teoretica all’università de L’Aquila, ragionando sulla tesi del collega Roberto Esposito della Scuola normale superiore di Pisa sostenuta nel libro Immunità comune. Biopolitica all’epoca della pandemia [2].
Da vent’anni Esposito ha introdotto il paradigma dell’immunizzazione nell’orizzonte della filosofia politica e della teoria sociale [3]. La richiesta di immunizzazione sembra infatti caratterizzare sempre più aspetti decisivi della nostra esistenza. Tanto più in epoca pandemica, sentendosi esposta al rischio di contagio da parte di elementi estranei, la vita tanto dell’individuo quanto della società tende a rinchiudersi all’interno dei propri confini protettivi. In altri termini, scatta un riflesso dinnanzi alla paura dell’essere infettati, come nel passato nei confronti delle pestilenze: prima che essere imposto, ognuno sperimenta una sorta di lockdown psicologico. Così facendo, si paga certamente un prezzo alto, in termini di ritiro sociale, solitudine, angoscia. Questo costo sociale è stato ritenuto da alcuni fin troppo alto.
La difficoltà è acuita dal fatto che, così come il corpo individuale, anche quello collettivo può essere “vaccinato” dal male che lo insidia soltanto attraverso l’immissione preventiva e controllata di una particola del male stesso, secondo appunto la logica immunitaria. Per sfuggire alla morte, la vita parrebbe costretta, sia pure in quantità piccole ma efficaci, a incorporarne il principio: “Secondo quel paradigma non c’è salute dell’organismo individuale né salvezza del corpo sociale (la communitas) senza che qualcosa dell’opposto della vita, dunque qualcosa dell’ordine della morte, venga inoculato nel vivente per proteggerlo dalla morte che incombe sempre su di lui” [1]. Questo spiega, in qualche misura, anche le resistenze di parte dei no-vax.
La salute è uno stato precario dell’uomo, che non promette niente di buono.
Guido Ceronetti
Rocco Ronchi si spinge oltre, laddove forse ci seguiranno solo i professionisti più curiosi. Secondo Ronchi, se l’immunizzazione diviene un concetto così pervasivo nel dibattito pubblico, è perché può contare su una concezione della vita stessa nella quale il ruolo della morte è preponderante, è la condizione stessa di intelligibilità della vita. Nelle concezioni “immunitarie”, il nulla è innegabile, ed è sul suo metro che tendiamo a spiegarci il senso stesso della vita. Ronchi la definisce una metafisica della vita che, in ultima analisi, si caratterizza come il proprio contrario, cioè come una ontologia della morte. In altre parole, la vita assume senso solo se confrontata con la morte, con il negativo. Infatti, mentre ancora la scienza non si spiega l’origine della vita, la morte viene considerata, per così dire, lo stato di default della realtà: “Il nulla, la negazione, la morte, con i suoi corollari ‘esistenziali’ di finitezza, mancanza e contingenza, sono l’innegabile per la linea maggiore del pensiero occidentale” [1].
Avrebbe dunque ragione il vecchio medico citato anche da Guido Ceronetti, per il quale “la salute è uno stato precario dell’uomo, che non promette niente di buono”.
Ognuno di noi viene alla vita dal nulla e lì è destinato a tornare, la morte costituendo l’orizzonte di ogni vivente. Al dunque, la condizione dell’uomo è “essere-per-la-morte”, sosteneva il filosofo tedesco Martin Heidegger (1889-1976), nel senso che la nostra vita non è nient’altro che la dilazione del morire. A questa concezione al fondo malinconica, per la quale la vita appare come un’increspatura della morte e la salute come una momentanea assenza di malattia, Ronchi sembra opporre la “grande salute” di cui parlava un altro gigante del pensiero, Friedrich Nietzsche (1844-1900), di una vita che vive, intangibile e indistruttibile, eternamente ritornante su sé stessa. Ronchi si chiede anche se, sul piano politico, questa concezione radicalmente immanente del vivente non potrebbe dar vita – è proprio il caso di dirlo – a una comunità diversa, più serena e coesa.
Jacques Derrida suggeriva di pensare insieme la vita e la morte, quasi come fossero un unico concetto: la-vita-la-morte,
Siamo nel pieno della tempesta metafisica del pensiero occidentale. Le cui ricadute sono rilevanti anche sul piano sociale. E non ci si può illudere di eluderla, scegliendo per la vita o per la morte. Piuttosto, richiameremmo una suggestione dello studioso francese Jacques Derrida (1930-2004) che suggeriva di pensare insieme la vita e la morte, quasi come fossero un unico concetto: la-vita-la-morte, come scriveva [4]. A indicare il nodo indissolubile che certamente lega l’essere umano al nulla che verrà, mantenendo quella sana consapevolezza del limite che può però farci apprezzare appieno i doni della vita e dello star bene.