Connettere società e biologia
Disuguaglianze sociali e cattiva salute. Dall’ultimo libro di Luca Carra e Paolo Vineis, Il capitale biologico

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Disuguaglianze sociali e cattiva salute. Dall’ultimo libro di Luca Carra e Paolo Vineis, Il capitale biologico
Con il consenso degli autori e dell’Editore pubblichiamo in anteprima parte del capitolo finale del libro Il capitale biologico di Luca Carra e Paolo Vineis, Codice Edizioni, Torino 2022.
In un episodio di uno dei suoi romanzi più riusciti, Casa desolata, Charles Dickens abbozza il ritratto di una nobildonna londinese, Mrs Jellyby, che trascura i propri famigliari per dedicarsi a cause umanitarie in terre lontane. “Telescopic philantropy”, la definisce velenosamente Dickens. Il nostro libro vorrebbe ora sostenere le ragioni, per così dire, di una “microscopic philantropy”, ovvero di un’attenzione ai meccanismi molecolari attraverso i quali le disuguaglianze sociali si traducono – mediante una sorta di incorporazione – in svantaggi di salute. Per far questo dobbiamo abbandonare il tradizionale approccio “telescopico”, che mette a fuoco solo i fenomeni di povertà estrema, per considerare invece gli effetti biologici delle malattie e della riduzione della speranza di vita lungo l’intero gradiente socio-economico e l’intero arco dell’esistenza, dalla culla (anzi, anche prima, in utero) alla tomba. Questo filone di studi, adombrati dalla medicina sociale ottocentesca e portati a maturazione dall’epidemiologia contemporanea, ha raggiunto negli ultimi anni nuovi traguardi, individuando meccanismi capaci di connettere società e biologia, e quindi scienze umane e sociali e scienze della natura. La divisione tradizionale tra queste scienze è ormai del tutto anacronistica, eppure continua a fare molti danni. La divisione non giova a nessuna delle due parti, mentre entrambe trarrebbero profitto da una maggior integrazione e, soprattutto, se ne gioverebbe la politica (intesa come policy making).
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Integrare biografia e biologia consente di trarre vantaggio dalle conoscenze più approfondite che le scienze sociali, talora in modo sofisticato, producono circa il contesto di vita delle persone, il quale ne condiziona i comportamenti e l’esposizione a fattori di rischio. Poiché la ricerca ha definitivamente escluso che le persone socialmente svantaggiate lo siano prevalentemente per predisposizione genetica, la constatazione che gli abitanti della periferia di qualunque città hanno diversi anni di vita da vivere in meno rispetto agli abitanti del centro (e così i lavoratori di rango inferiore nello studio Whitehall) richiede una spiegazione meno semplificata di quella genetica. Come si è visto, Pierre Bourdieu ha fornito un utile quadro di riferimento con i suoi “capitali” sociale, culturale ed economico. Pure in quest’ambito, un’interpretazione semplicistica è quella che attribuisce alle disuguaglianze economiche tutta la responsabilità. Esse svolgono certamente un ruolo (per esempio, i cibi più sani abitualmente costano di più), ma non va dimenticato quel concetto complesso e sfumato – e tuttavia illuminante – proposto da Bourdieu sotto il nome di habitus. Quest’ultimo, come abbiamo visto, include le componenti informali che differenziano le classi sociali: il modo di vestire, di atteggiarsi, di muoversi, le scelte alimentari e comportamenti come l’uso di alcolici o il fumo. Il merito di questo concetto è che ci spiega che i comportamenti sono tra loro interconnessi, cioè non facilmente separabili, e ancor meno separabili dalla classe o strato sociale di appartenenza. Dunque è giustissimo investire nell’educazione sanitaria per ridurre il fumo di sigarette nella popolazione, ma possiamo aspettarci che questa strategia abbia un’efficacia diversificata a seconda delle classi sociali. Ben vengano gli interventi su variabili prossimali come il fumo (per ridurre l’esposizione) e i gas serra, e gli interventi basati su farmaci o vaccini. Ma ad essi devono affiancarsi interventi meno immediati che tengono conto della complessità delle reti di relazioni, incluse quelle informali e basate su pratiche condivise (si pensi all’interpretazione dell’obesità come “contagio”).
Il modello che abbiamo proposto ha un altro vantaggio rispetto ai modelli basati unicamente sulle scienze naturali (per lo più incentrati sulle cause prossimali) o sulle scienze sociali (basati su cause distali), in quanto mira a identificare meccanismi sottostanti alle relazioni causali attraverso il concetto di embodiment (incorporazione del sociale nel biologico). Perché si tratta di un concetto così importante? Primo, perché un pregiudizio degli scienziati naturali è che idee come quelle di classe sociale, di habitus ecc., siano per così dire metafisiche, vivano appunto nel mondo delle idee ma non abbiano un riscontro materiale. Avendo dimostrato nel nostro studio Lifepath che le classi sociali differiscono anche per la trascrizione del dna, gli orologi biologici, il carico allostatico ecc., riteniamo di avere fornito un substrato biologico e materiale alle corrispondenti categorie sociologiche. Inoltre ricostruire i percorsi molecolari che legano le esposizioni agli esiti clinici ha il pregio di chiarire quali tra le cause distali sono più plausibili, anche attraverso le “analisi (statistiche) di mediazione”. Siamo solo agli inizi del percorso, ma una delle finalità di queste analisi è capire se contano di più, tra i determinanti distali, il reddito, l’istruzione, le reti sociali ecc. Ciascuno di questi determinanti può essere caratterizzato da meccanismi intermedi diversi e dunque portare a ipotesi di intervento politico diverse. Per esempio, i nostri modelli controfattuali ci hanno suggerito che intervenire sugli eventi avversi nell’infanzia (Ace) può avere, sulla riduzione della mortalità, la stessa efficacia della lotta al fumo. Agire sugli Ace ha diversi effetti collaterali positivi, inclusa una riduzione delle disuguaglianze sociali.
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Le scienze naturali fanno ricorso a teorie generali che sono diverse da quelle delle scienze sociali, e questo è un altro punto che induce a una loro integrazione. La separazione tra i due tipi di scienza ha spesso prodotto accuse, se non messe in caricatura, reciproche. Gli scienziati sociali hanno accusato quelli naturali di essere “riduzionisti”; spesso un’accusa vera, ma che va ridimensionata alla luce dell’utilità delle teorie biologiche (per non parlare dei modelli matematici) anche per la comprensione dei fenomeni sociali. D’altra parte, gli scienziati naturali hanno messo alla berlina i loro colleghi umanisti: si pensi alla “beffa di Sokal”, in cui un noto fisico scrisse un testo infarcito di tesi pseudoscientifiche che scimmiottava il gergo post-modernista alla moda e che venne seriamente pubblicato da una rivista di scienze sociali. Un esempio di come le teorie scientifiche naturalistiche possano contribuire alle scienze sociali l’abbiamo offerto attraverso una breve descrizione del concetto di “fenotipo parsimonioso”, un modo elegante per interpretare la predisposizione alle malattie senza ricorrere alla genetica e il cui esempio forse più noto riguarda i sopravvissuti alla carestia in Olanda nella seconda guerra mondiale. Coloro che vissero l’esperienza della carestia nell’utero delle loro madri e sopravvissero non solo avevano un basso peso alla nascita, ma anche una forte propensione a divenire obesi e diabetici in età adulta: si è poi scoperto che ciò si doveva all’adattamento a un regime dietetico estremamente povero, che induceva all’immagazzinamento di energia e che in seguito – in un regime di abbondanza alimentare – portava a un maladattamento. Il valore euristico di questo concetto sta nel riuscire a spiegare il persistere di un rischio elevato per un lungo periodo (decenni) successivo al momento in cui si è verificata l’esposizione ad agenti patogeni, in questo caso la carenza di nutrienti e in particolare dell’acido folico.
Un altro esempio è il concetto di sovraccarico allostatico, che fornisce una base concettuale e molecolare all’idea altrimenti vaga di “stress”. L’idea sottostante è che gli organismi viventi siano plastici, cioè rispondano a situazioni stressanti (stimoli ripetuti che ne possono alterare l’equilibrio chimico, fisico o biologico) con meccanismi di difesa che costituiscono una “riserva funzionale”. Ma oltre una certa soglia, variabile da individuo a individuo e dipendente dalla frequenza e intensità dello stimolo, la riserva funzionale diviene insufficiente e insorge una patologia. Il modello è molto simile a quello dell’equilibrio tra agenti infettivi, con cui siamo in costante contatto, e sistema immunitario. La soglia oltre la quale l’equilibrio si rompe dipende dalle caratteristiche per esempio nutrizionali dell’individuo e dalla storia cumulativa di precedenti esposizioni (la memoria immunitaria). Ci pare che questo filone di ricerca biologica, ormai ben consolidato, offra molti interessanti insegnamenti alle scienze sociali, in quanto consente di legare “diacronicamente” (nel corso del tempo) eventi che altrimenti sembrerebbero slegati tra loro.
Abbiamo così almeno tre percorsi molecolari (ma verosimilmente di più) che spiegano il divario tra classi sociali nell’invecchiamento in buona salute, e possono divenire oggetto di interventi preventivi. Ciascuno di essi suggerisce un diverso tipo di intervento preventivo.
L’incremento della nostra memoria immunitaria può essere ottenuto attraverso i vaccini, che sono al momento l’intervento più ovvio ed efficace, ma anche attraverso esposizioni ambientali e stili di vita (in particolari alimentari) che modificano il microbioma. Su quest’ultimo sappiamo ancora poco per avviare interventi efficaci, ma, data l’importanza che ha il microbioma intestinale in termini qualitativi e quantitativi, è probabile che sue alterazioni e semplificazioni (cioè una riduzione della biodiversità) siano negative per la salute.
Il fenotipo parsimonioso ci suggerisce invece di evitare esposizioni in utero che programmino in senso patologico la vita successiva, e dunque di evitare carenze nutrizionali, incluse quelle associate alla sostituzione di cibi freschi con cibi ultraprocessati.
Quanto al sovraccarico allostatico, l’indicazione di evitare esposizioni a sostanze chimiche o stimoli fisici dannosi è evidente. Meno evidente è il ruolo svolto dal sovraccarico psicologico e dalla sua associazione con lo stress psicofisico. Il concetto di sovraccarico allostatico è nato infatti proprio per studiare quanto avviene ai confini tra psiche, sistema nervoso, sistema endocrino (ormoni dello stress), immunità e infiammazione.
È verosimile che, sottostante a ciascuno dei tre percorsi che abbiamo riassunto, vi sia un meccanismo epigenetico. Siamo lontani dal potere ricostruire l’intero puzzle, ma ricordiamo che in Lifepath abbiamo dimostrato la capacità degli “orologi biologici” basati sull’epigenetica (metilazione del dna) di predire l’invecchiamento in buona salute in associazione con la classe sociale di appartenenza. Dunque diversi filoni sembrano convergere, anche se il quadro d’insieme è ancora incompleto.
Oltre a questi pochi cenni circa il modo con cui le scienze sociali e le decisioni politiche possono giovarsi dei meccanismi biologici che abbiamo delineato, vediamo quali altri insegnamenti pratici possiamo trarre. Ci sembra che due periodi chiave che richiedono speciale attenzione siano l’infanzia – con particolare enfasi sulla prevenzione degli eventi avversi (Ace), cioè della deprivazione e delle violenze – e la fase riproduttiva della vita. Gli Ace possono predire eventi sanitari come l’obesità, le malattie cardiovascolari, la propensione a fumare, il diabete e la demenza senile. Come abbiamo visto, investire nella prevenzione degli Ace e in una buona istruzione ha un effetto sulla mortalità a 55 anni paragonabile a quello della lotta al tabagismo.
Per quanto riguarda la fase riproduttiva della vita, essa viene spesso negletta, a favore degli interventi economici e assistenziali in età avanzata. Deve invece essere garantito un congedo parentale (di maternità e/o paternità) per tutti, così come un congedo per malattia retribuito. L’assistenza all’infanzia deve essere resa accessibile a tutte le famiglie che ne hanno bisogno, e anche coloro che lavorano in nero o hanno lavori a chiamata devono essere tutelati attraverso la previdenza sociale o un reddito di base universale. Un alloggio pulito ed economico con spazi adeguati deve diventare una priorità politica; l’istruzione deve essere accessibile a tutti senza eccezioni; quando sono a scuola, i bambini e gli adolescenti devono poter ricevere un pasto decente e il materiale scolastico senza ulteriori oneri. Sembrano indicazioni banali, ma non sono rispettate in tutti i Paesi europei e costituiscono interventi di base che possono consentire un salto in avanti nello stato di salute delle prossime generazioni.
Inoltre abbiamo visto, nel corso della crisi ma anche attraverso le ricerche di Michael Marmot, che i diritti dei lavoratori sono una questione chiave. Abbiamo ricordato in un precedente capitolo quali misure, sulla scorta delle ricerche empiriche di Whitehall II (sempre basate su una combinazione di scienze sociali e scienze naturali), suggerisce Marmot. Esse riguardano in particolare il supporto economico e sociale sul luogo di lavoro, fino a prevedere il coinvolgimento dei lavoratori nella conduzione stesse delle aziende, noto come workers buyout, soprattutto nel caso di aziende in crisi.
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Abbiamo accennato a misure per le persone giovani in età fertile, per i bambini e per le persone in età lavorativa. In realtà uno dei maggiori contributi del consorzio Lifepath è consistito nella messa in evidenza dell’importanza di sviluppare interventi di mitigazione dell’impatto delle disuguaglianze sulla salute differenziati a seconda dei diversi periodi della vita.
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Arrivati al termine speriamo di avere convinto gli scienziati naturali che le scienze sociali sono utili, gli scienziati sociali che le scienze naturali sono comprensibili e rilevanti anche per loro, e i politici che esistono modi nuovi di concepire le politiche sociali.
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