Qual è lo sguardo del cinema sulla salute mentale? Può diventare uno strumento per aiutarci a guardare in modo più sincero la sofferenza?
Abbiamo intervistato Federico Russo, psichiatra e direttore scientifico dello Spiraglio Filmfestival, un festival di cinema sulla sofferenza mentale che da tempo promuove l’integrazione tra arte e salute, con la convinzione che attraverso lo sguardo della macchina da presa sia possibile restituire un senso e un’umanità alle vicende complesse e difficili che coinvolgono sia le persone che vivono condizioni di sofferenza mentale sia gli operatori che se ne prendono cura.
Perché, secondo lei, il cinema ha mostrato da sempre un interesse particolare per la rappresentazione delle malattie mentali, più che di altre malattie?
Il cinema ha avuto bisogno della psichiatria e degli studi della psicologia e della psicoanalisi per raccontare storie. Inizialmente il cinema non fu immaginato come un mezzo per poter rappresentare la finzione ed i sogni dell’uomo ma più come uno strumento per rappresentare la realtà. Fu Georges Méliès che per primo si cimentò nel cinema fantastico mettendo in scena delle rappresentazioni della realtà. Proprio quando Méliès iniziò a cimentarsi nel cinema onirico anche Freud cominciò ad esplorare l’inconscio e fu così che la psicoanalisi e il cinema si cominciarono a incuriosire l’uno dell’altro. Inoltre, chi si occupa di persone con sofferenza mentale, deve saper ricostruire storie: dobbiamo ripercorrere la storia, spesso frammentata o mancante, di chi sta male. Quindi dobbiamo essere in grado, insieme ai nostri pazienti, di scrivere una sceneggiatura che permetta loro di rappresentarsi.
Sempre parlando di rappresentazione, quella cinematografica, rispetto ad altre, che tipo di sguardo ha della malattia, del paziente e delle sue relazioni sociali?
Per capire meglio il significato dell’incontro tra cinema e psichiatria bisogna sempre tenere in conto lo spettatore, ovvero capire quanto sarà in grado di identificarsi e di ricevere la storia che il regista gli propone. Miloš Forman in Qualcuno volò sul nido del cuculo guardò dentro un manicomio, raccontò le persone più emarginate, addirittura recluse, ma le rese avvicinabili per il pubblico; cominciò a rappresentare l’idea di una follia pensabile. Attraverso i film è quindi possibile immaginare il pazzo fra di noi e non più al di fuori della società. La forza della rappresentazione cinematografica è di riuscire, in certi momenti, a farci identificare con personaggi difficili o inquietanti. Lo spettatore riesce a star vicino a storie e persone che altrimenti sembrerebbero solo pericolose e lontane da noi. In questo senso il cinema è utile, poiché avvicina alla sofferenza altrui chi guarda.
La narrazione cinematografica delle malattie e dei malati significa anche rappresentazione dei medici? Come sono raccontate le relazioni di cura?
Quando un personaggio è chiaramente connotato con uno stato di sofferenza mentale viene spesso tratteggiata anche una forma di relazione terapeutica. Come nei film di Woody Allen, dove spesso ci sono riferimenti a lunghe relazioni terapeutiche, oppure in Io ti salverò di Alfred Hitchcock o in Gente comune di Robert Redford dove gli psicoterapeuti sono alla ricerca di vicende rimosse a cui non si riesce a dare un senso. Le relazioni terapeutiche aiutano e guidano nella lettura di ciò che sta succedendo e servono anche per avere una speranza, proprio perché è fondamentale che il film tenga in considerazione lo spettatore e le sue emozioni. Gli psichiatri e gli psicologi servono, anche nei film, per aiutare a comprendere meglio cosa sta succedendo dentro la mente di un uomo e quindi per permettere al pubblico di comprendere il grande enigma che spesso è la sofferenza umana; perché al di fuori delle rappresentazioni la sofferenza viene nascosta da chi la vive e quindi non è facile individuarne l’origine. Invece rappresentare anche la relazione con i terapeuti rende possibile capire le radici e immaginare la guarigione.
In Italia come è stata raccontata la sofferenza mentale?
Il cinema italiano ha una sua specificità che emerge già a partire dai film del neorealismo in cui il tema della sofferenza mentale assume anche una dimensione politica, legata alle condizioni sociali ed economiche dei personaggi, a volte estremi, che vengono messi in scena. Insieme coesistono rappresentazioni più didascaliche ma ugualmente importanti che hanno guardato e raccontato con interesse la rivoluzione basagliana, come ad esempio lo sceneggiato Rai La città dei matti che ripercorre efficacemente le vicende di Trieste. Tra molti film, da Senza Pelle di Alessandro D’Alatri al più antico Diario di una schizofrenica di Nelo Risi, ci sono anche esempi di film molto autentici come, per esempio, Si può fare di Giulio Manfredonia, che racconta delle cooperative sociali nate per dare lavoro ai pazienti dimessi dai manicomi in seguito alla legge Basaglia e rappresenta in modo delicato sia la speranza e la possibilità di curarsi, sia la dimensione più profonda della sofferenza in cui non sempre esiste il lieto fine. Opere più recenti sono il film La pazza gioia di Paolo Virzì, per la capacità di far immedesimare lo spettatore nelle due protagoniste così bizzarre, eppure così umane, e la serie tv Tutto chiede salvezza di Francesco Bruno, che ha adattato il romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli e che riesce nel compito straordinario di rappresentare sotto forma di finzione una storia vera, rendendola digeribile.
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