Con questo termine di lingua inglese, letteralmente “fornitore di cura”, si intende la figura di colui che, nell’ambito della domiciliazione di individui affetti da disabilità o patologia cronica e invalidante, si occupa dell’assistenza sanitaria, aiutando nello svolgimento delle varie mansioni quotidiane. Si distingue la figura del caregiver familiare – unito al paziente da un vincolo privato, che di norma si prende cura del membro non autosufficiente della propria famiglia a tempo pieno e a totale titolo gratuito – dal caregiver non familiare, ossia una persona che si alterna al caregiver familiare e viene remunerata per assolvere alle medesime funzioni di assistenza e sostegno.
Occorre riconoscere che spesso la presa in carico globale, i buoni esiti di cura, le dimissioni precoci, la continuità assistenziale (realizzata tramite la creazione di specifici percorsi socio-assistenziali che uniscono enti del territorio e centri specialistici) sono resi possibili grazie al competente, seppur non validato da diplomi di qualifica, supporto dei caregiver.
Di più: quando il paziente è in condizione di dipendenza da tecnologia per le funzioni vitali (respirazione e nutrizione, ad esempio), egli non potrebbe affatto essere domiciliato senza il lavoro dei caregiver. Le dimissioni di questi pazienti devono avvenire in condizioni che ne garantiscano la piena sicurezza. Questo si traduce nella necessità di un’assistenza 24 ore su 24 e di un’apposita formazione dei caregiver nei centri di cura specialistici per acquisire le competenze necessarie per poter assistere autonomamente il paziente (si pensi alle medicazioni delle stomie, ai cambi di cannula tracheale in gestione ordinaria, in emergenza, e così via) e provvedere al monitoraggio continuo dei parametri vitali.
I caregiver sono coloro che, materialmente, garantiscono la sopravvivenza del paziente al domicilio e ne aumentano la qualità della vita (la quale è considerata migliore se si può vivere a casa e non in ospedale). Nella maggioranza dei casi i caregiver sono donne e, nel caso di pazienti minori d’età, sono le madri. Questi dati – l’importanza dei caregiver per un’efficace assistenza sanitaria e la prevalenza del genere femminile tra coloro che svolgono questa attività – si presentano ancor più significativi se si osserva che la considerazione che nelle società occidentali contemporanee viene riservata alle professioni e alle attività del prendersi cura pare segnata da ordinaria, pervicace svalutazione.
In alcuni Paesi esistono già normative che tutelano questa nuova figura, garantendole una retribuzione economica.
Da molti anni si discute sui possibili modi con cui dare pubblica visibilità, riconoscimento sociale ed economico a queste persone che, consentendo la domiciliazione di pazienti con quadri clinici complessi (medical complexity), svolgono un servizio a favore dell’intera collettività e contribuiscono a diminuire la spesa sanitaria (la domiciliazione grava meno sulla spesa sanitaria di un Paese rispetto a ogni altra alternativa residenziale).
In alcuni Paesi esistono già normative che tutelano questa nuova figura, garantendole una retribuzione economica. In Italia sono stati stilati alcuni disegni di legge volti a riconoscere il fondamentale contributo di queste figure nei processi di domiciliazione, figure che, quando legate ai pazienti da un vincolo affettivo, investono nell’assistenza e nella cura una quantità di tempo ed energie di gran lunga maggiore rispetto a quella di qualunque altro individuo coinvolto nella cura dei pazienti per ragioni professionali. Con l’espressione “caregiver burden” si intende l’impatto, in termini fisici, psicologici, emotivi e sociali, che il lavoro di assistenza a familiari malati ha sul singolo individuo; il “peso” dell’essere un fornitore di cure, il carico di lavoro e responsabilità che esso comporta, può provocare forme croniche di stress, disagio e malessere.
Elena Nave Comitato etico interaziendale, Aou Città della salute e della scienza di Torino Ao Ordine Mauriziano – Asl Città di Torino Consulta di bioetica onlus
Questo testo è tratto dal libro Le parole della bioeticaa cura di Maria Teresa Busca e Elena Nave (Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2021). Per gentile concessione dell’editore.