I ragazzi preadolescenti che esprimono un rifiuto della propria identità di genere sono in forte aumento [1]. Tra i vari fattori che contribuiscono a questo aumento due sono particolarmente importanti. Il primo è il forte effetto della pandemia e del distanziamento sociale sul malessere identitario caratteristico di questa età (e successivamente nell’adolescenza). Il secondo fattore è conseguenza della possibilità, che l’incongruenza o disforia di genere (che ha oggi una forte diffusione mediatica) offre ai ragazzi, ovvero quella di dare un nome e una spiegazione al proprio disagio. Entrambi questi fattori sono alla base di una tendenza all’imitazione.
Al malessere identitario manifestato come disagio di genere confluiscono situazioni diverse: l’anoressia e assetti psichici “autistici” o anche difficoltà a configurare una percezione unitaria di sé come soggetti. A volte ci sono sottostanti problematiche “psicotiche” e depressive. Il momento prevedibilmente critico è l’avvio dello sviluppo puberale quando entrano in gioco potenti impulsi sessuali e importanti trasformazioni psichiche e corporee (prendono forma i caratteri sessuali secondari). Si è pensato di affrontare il problema somministrando la triptorelina per arrestare la pubertà, in attesa di tempi migliori. Questa soluzione pone serie questioni etiche e scientifiche non disgiungibili tra di loro.
Il modo migliore per affrontare i problemi identitari che si acuiscono durante la pubertà consiste nell’aiutare i ragazzi ad acquisire un’esperienza delle loro trasformazioni corporee, a capirle, a elaborarle e a gestirle emotivamente e mentalmente.
La triptorelina è un analogo dell’ormone LHRH, stimolante il rilascio delle gonadotropine. Nasce come farmaco antitumorale ma è utilizzato con successo anche come trattamento per le forme centrali e complete di pubertà precoce, con prematura attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi (gonadotropino-dipendenti). In questo modo è in grado di interrompere o rallentare lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari e del ciclo mestruale. Nel 2019 l’Agenzia italiana del farmaco ha inserito la triptorelina nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale per l’impiego in casi selezionati di disforia di genere, con diagnosi confermata da un’équipe multidisciplinare e specialistica e in cui l’assistenza psicologica, psicoterapeutica e psichiatrica non sia risolutiva.
Il modo migliore per affrontare i problemi identitari che si acuiscono durante la pubertà consiste nell’aiutare i ragazzi ad acquisire un’esperienza delle loro trasformazioni corporee, a capirle, a elaborarle e a gestirle emotivamente e mentalmente. C’è bisogno di un buono e duraturo percorso psicoanalitico, a carattere psicodinamico, accompagnato da un sostegno ai genitori e alla famiglia. In casi estremi di vissuti di angoscia destrutturante o fortemente depressivi, un aiuto farmacologico con tranquillanti o antidepressivi, dosato cautamente, può rendersi necessario (soprattutto in assenza di un ambiente in grado di dare un adeguato contenimento). Negare ai ragazzi la possibilità di un’elaborazione personale delle loro problematiche identitarie, pregiudica la loro evoluzione verso la maturità e la capacità di fare scelte libere e può ipotecare il loro futuro.
Il trattamento con i bloccanti della pubertà (che si affida a valutazioni psicologiche superficiali e frettolose) soggiace a due gravi contraddizioni. La prima consiste nel fatto che dei ragazzi preadolescenti che professano un’incongruenza di genere, solo una piccola parte successivamente, dopo la pubertà, e quindi in adolescenza, si riconosce in questa percezione soggettiva di sé [2].
L’arresto dello sviluppo non potrà mai sfociare nella creazione di un corpo diverso da quello che si ha.
Il trattamento è dunque fondato su una diagnosi altamente incerta, frutto esclusivo delle affermazioni dei soggetti interessati, che non saranno, nella gran parte dei casi, confermata successivamente. Esso non tiene conto di elementi diagnostici obiettivi utili per un’iniziale diagnosi differenziale e crea serie difficoltà nell’inquadramento diagnostico complessivo. Mostra una preoccupante incuria nei confronti dei soggetti trattati.
L’arresto dello sviluppo non potrà mai sfociare nella creazione di un corpo diverso da quello che si ha. Si può modificare il proprio corpo, secondo parametri esteriori, ma non si può trasformarlo nel corpo dell’altro sesso.
La seconda contraddizione è la presunzione che si possa arrivare a un chiarimento della problematica identitaria escludendo lo sviluppo puberale. Tale sviluppo (che cambia la percezione di sé) è, invece, determinante, per l’acquisizione di un’identità sessuale e di genere sufficientemente definite. Di conseguenza l’arresto della pubertà lascia i ragazzi sospesi, congelati in una posizione indifferenziata, con ricadute gravi sul loro sviluppo psichico. Il congelamento puberale impedisce la comprensione e l’elaborazione delle altre ragioni di malessere che confluiscono nella disforia e non consente di affrontarle in tempo. Esso, ritardando lo sviluppo psicosessuale, può creare importanti condizionamenti futuri e sicuramente complica le relazioni con i coetanei. Può influenzare in modo negativo persistente la percezione del proprio corpo [3].
Il prendere tempo significa perdere tempo in una fase di passaggio cruciale della vita, con il rischio di orientare psichicamente i preadolescenti nella direzione di una transizione di genere, non liberamente scelta da loro.
In chi lo propone non sembra essere chiaro che l’arresto dello sviluppo non potrà mai sfociare nella creazione di un corpo diverso da quello che si ha. Si può modificare il proprio corpo, secondo parametri esteriori, ma non si può trasformarlo nel corpo dell’altro sesso.
Il prendere tempo significa perdere tempo in una fase di passaggio cruciale della vita, con il rischio di orientare psichicamente i preadolescenti (che non sono in grado di fare valutazioni adeguate e prendere decisioni) nella direzione di una transizione di genere, non liberamente scelta da loro. Lasciati liberi a evolvere prendono nella grande maggioranza dei casi altre strade.
Il rischio di passare dai bloccanti a una transizione ormonale (in alcuni casi anche chirurgica), senza soluzione di continuità, è presente. È giusto sapere che l’eventuale transizione implica un’importante serie di conseguenze psichiche e fisiche (riduzione della libido e della possibilità di soddisfazione sessuale).
Per tutti questi motivi la decisione della terapia ormonale dovrebbe essere presa in piena libertà, senza mai diventare una scelta influenzata.
Sarantis Thanopulos Presidente della Società psicoanalitica italiana