Tra le letture d’inizio anno, si segnala il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Annientare [1]. Già il titolo allarma. Stavolta la storia induce a riflettere una volta di più sugli effetti di un tumore, per di più scoperto tardi.
Ogni romanzo dello scrittore francese, soprattutto da qualche anno a questa parte, esige nervi saldi e forza d’animo. Le sue storie sono ruvide, i suoi personaggi scabri e sofferenti, viaggiatori di un mondo già post-storico, percosso e attonito per la violenza diffusa e lo smarrimento generalizzato. Anche la politica sembra poter poco, limitandosi ad amministrare un mondo nel quale ormai nessuno si adopera per rimediare alle ingiustizie macroscopiche: quelle microscopiche, non meno affilate, feriscono i soggetti nel loro privato, esponendoli in solitudine al dolore e alla rinuncia.
Questa volta, il protagonista è Paul Raison, sulla soglia dei cinquant’anni, alto funzionario del ministero francese dell’economia. Il suo cognome (ragione, in italiano) la dice lunga e ben s’intona al suo atteggiamento disincantato che però non lo protegge dalle insidie del vivere. Suo padre, ex direttore del controspionaggio francese, viene colpito da un ictus che lo riduce sulla sedia a rotelle, senza poter contattare il mondo se non attraverso lo sguardo. E questo proprio nei mesi in cui si scatena un’inedita offensiva terroristica anti-occidentale, la società è minacciata da forze sconosciute: sugli oceani vengono affondate un paio di super portacontainer; viene messa a fuoco la principale banca del seme; infine, viene silurata un’imbarcazione colma di migranti africani, facendo più di 500 vittime. Gli attentati non vengono rivendicati, fungendo piuttosto da promemoria per ricordarci di cosa sia fatta la nostra epoca: dell’esodo in massa di migranti, di una universale e spersonalizzata circolazione delle merci, di procreazione surrogata o artificiale. Della quale ultima patisce le conseguenze fino al suicidio anche il fratello minore del protagonista, Aurelien, in esito a un matrimonio con una donna ideologica che ha voluto un figlio nero e in provetta, nonostante il marito non fosse sterile.
Paul tenta allora di ricomporre i pezzi disallineati della propria vita, ritrovando il rispetto per l’anziano padre infermo, un rapporto con il fratello e la sorella bigotta e, soprattutto, l’amore di Prudence, sua moglie, con la quale ha vissuto negli ultimi anni da separato in casa: un amore perduto e infine rivitalizzato, proprio quando scopre però una minaccia più grande: un carcinoma del cavo orofaringeo. Da mesi aveva notato un gonfiore delle gengive, e quando si rivolge al dentista il tumore ha ormai invaso i linfonodi del collo.
L’estinzione del dominio della lotta
Le ultime cento pagine del libro, dedicate al progredire della malattia di Paul e alle sue reazioni alla radio, e poi alla chemioterapia, sono forse le più dense del libro. Houellebecq è scrittore troppo avvertito per aver bisogno di indulgere sulle nausee, sulla perdita di peso, sullo scoramento, sul dolore – in una parola – del protagonista. Anche se per tutto ciò ha una parola. Come qualcuno ha scritto, è come se, varcati i sessanta, Houellebecq stesso fosse passato dall’estensione del dominio della lotta (il titolo di uno dei suoi primi romanzi) [2], all’estinzione del dominio della lotta: che ormai si è ritratta in un privato che, per sua (e, chissà, forse per nostra) fortuna, trae alimento dall’amore di coppia. Un amore frutto della consuetudine ritrovata, ma innervato dalla pulsione sessuale che, nel protagonista, risorge quasi invincibile, a contrastare le stanchezze di un corpo estenuato dal tumore dilagante. Forse, al titolo, manca un punto interrogativo finale.
A volte, un romanzo può essere di aiuto perfino nella professione medica. In questo caso, un operatore sanitario potrà capire meglio di chiunque la ritrosia di Paul a sottoporsi all’operazione chirurgica, le sue inappetenze, la paura che lo invade al progredire della malattia. Ma potrà anche trovare nella narrazione della malattia le parole che esprimono il proprio stato d’animo di fronte alla sofferenza del paziente, come anche gli sguardi, le parole e i silenzi da condividere con lui.