Alzheimer: tanti investimenti e pochi risultati?
Andrea Capocci a colloquio con il neuroscienziato Antonino Cattaneo

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Andrea Capocci a colloquio con il neuroscienziato Antonino Cattaneo
La vita di Antonino Cattaneo, uno dei più importanti neuroscienziati italiani, si divide tra Roma e Pisa. Cattaneo infatti è ordinario di fisiologia alla Scuola Normale di Pisa e presiede l’Istituto europeo di ricerca sul cervello “Rita Levi-Montalcini” (Ebri). Il suo percorso di studi però è iniziato dalla fisica negli anni ‘70. Il suo relatore di tesi fu Mario Ageno, uno dei ragazzi di via Panisperna, sotto la cui direzione Cattaneo si è laureato in biofisica. In seguito, è stato uno dei collaboratori più stretti proprio di Rita Levi-Montalcini, la fondatrice dell’Ebri che oggi Cattaneo presiede.
Le ricerche di Cattaneo vertono sulla sindrome di alzheimer, una malattia neuro-degenerativa che, secondo le stime, colpisce circa 600mila italiane e italiani. A questa malattia Cattaneo ha consacrato decine di studi. Ma anche lui ammette che i progressi per la ricerca di una cura sono stati molto deludenti finora, nonostante i grandi investimenti dedicati sia dalla ricerca pubblica che dalle società farmaceutiche negli ultimi anni.
Per prima cosa, è una malattia difficile da individuare. Anche se attraverso la ricerca conosciamo la fisiologia della memoria e i meccanismi della neurodegenerazione molto meglio di un tempo, ancora oggi la malattia viene diagnosticata a partire da test neuropsicologici che rilevano il declino cognitivo del paziente. E quando il declino è già iniziato, i danni al cervello provocati dalla malattia sono già troppo estesi per essere curati efficacemente. Avere dei marker biologici per identificare la malattia nelle prime fasi sarebbe un grande passo avanti per la ricerca di una terapia efficace. Importanti passi avanti sul fronte dei biomarcatori si stanno facendo anche all’Ebri, ad esempio per identificare le fasi precoci della malattia con esami oculari della retina.
Per prima cosa, è una malattia difficile da individuare.
Già Alois Alzheimer, lo scopritore della malattia, osservò la formazione di placche e fibrille di natura proteica nel cervello dei pazienti. Le placche sono costituite da una proteina detta precursore della beta-amiloide e, grazie allo studio di forme genetiche della malattia, sappiamo con buona certezza che la beta-amiloide e il peptide beta-amiloide (Ab) da essa derivato, è coinvolto nella insorgenza e nello sviluppo della malattia. Questo ha dato un forte impulso alla cosiddetta ipotesi dell’amiloide, sulla quale è stata basata la maggior parte degli studi clinici negli ultimi venti anni. Ma l’osservazione diretta delle placche non aiuta la diagnosi, perché si può fare solo dopo la morte o, comunque non allo stadio sufficientemente precoce della progressione della malattia.
È possibile che vi siano stati alcuni studi manipolati, però non bisogna avere una visione troppo ingenua della comunità scientifica: le evidenze pubblicate da Lesné non sono certo le uniche disponibili a supporto della ipotesi dell’amiloide. Nel tempo si sono raccolte numerosissime prove indipendenti che suggeriscono che il peptide Ab (beta-amiloide) e sue forme di associazione in piccoli aggregati detti oligomeri svolgano un ruolo cruciale nello sviluppo della malattia. Esistono forme ereditaria della malattia, che si manifesta in età giovanile, in genere prima dei 60 anni di età. La ricerca ha individuato diverse mutazioni genetiche associate a queste forme della patologia e sappiamo che esse colpiscono geni che determinano proprio la sintesi aberrante del peptide beta-amiloide: questo rafforza decisamente l’ipotesi che specifiche forme del peptide Ab siano connesse allo sviluppo della malattia. Il meccanismo causale tra gli oligomeri di Ab, le placche di Ab fibrillare e la malattia però non è ancora del tutto chiaro. Ci sono pazienti che presentano le placche ma non i sintomi, e viceversa. Anche un’altra proteina detta tau sembra avere un ruolo chiave nella degenerazione dei neuroni. Si tratta di una normale proteina neuronale che regola i microtubuli, quella rete di trasporto interna alla cellula lungo cui si muovono molte sostanze importanti come le vescicole che portano i segnali alle sinapsi. Nei malati, la proteina tau va incontro a una “fosforilazione paradossa” che la porta a staccarsi dai microtubuli e a raggiungere una concentrazione critica al di sopra della quale forma degli aggregati intracellulari. Si favorisce così la formazione di neurofibrille, cioè accumuli di proteine tau che portano alla morte del neurone.
È vero. All’inizio degli anni duemila sembrava vicino lo sviluppo di un “vaccino” contro l’alzheimer, basato sulla idea che le fibrille di Ab che formano le placche di amiloide possano essere considerati alla stregua di un corpo estraneo. L’idea era di esporre il sistema immunitario alle proteine dannose in modo che esso sviluppasse gli anticorpi. Il problema è che la risposta immunitaria del cervello è difficile da controllare. L’infiammazione dovuta alla risposta immunitaria ha provocato l’insorgenza di meningoencefaliti nel 6 per cento dei partecipanti alla sperimentazione, spesso con conseguenze neurologiche gravi. Questo pesante effetto collaterale ha fatto fermare la sperimentazione del vaccino nel 2002.
L’idea era di esporre il sistema immunitario alle proteine dannose in modo che esso sviluppasse gli anticorpi. Il problema è che la risposta immunitaria del cervello è difficile da controllare.
Si tratta di due anticorpi, l’aducanumab e il lecanemab. Si legano alla proteina beta-amiloide e puntano a impedire che la proteina si associ ad altre proteine e formi fibrille e placche. A differenza del vaccino, in questi casi si parla di immunizzazione passiva, perché gli anticorpi vengono somministrati dall’esterno e non sono prodotti dal sistema immunitario dell’organismo. Il primo, l’aducanumab, è stato approvato nel 2021 tra molte polemiche, perché i dati sull’efficacia sarebbero molto labili: il farmaco ha dimostrato la capacità di rimuovere le placche ma non ha dimostrato un effetto sul piano cognitivo. Nel 2022 è stato autorizzato il secondo anticorpo, il lecanemab. Per la prima volta il farmaco mostrerebbe un effetto, anche se limitato, sul declino cognitivo. Nemmeno questo però può considerarsi una cura per l’alzheimer, perché la malattia avanza anche nei pazienti che lo assumono, sebbene a un ritmo più lento. Entrambi questi anticorpi hanno mostrato effetti collaterali piuttosto gravi sul cervello, come le emorragie cerebrali.
Le fibrille e le placche di beta-amiloide sono precedute da “precursori”, gli oligomeri composti da un piccolo numero di peptidi Ab. Sono questi precursori a causare il danno ai neuroni e le caratteristiche placche si formano quando il danno è ormai già avvenuto. L’aducanumab però non distingue tra le placche e gli oligomeri e si lega a entrambi con la stessa affinità. Dato che le placche assorbono una quantità molto maggiore dell’anticorpo, la capacità dell’aducanumab di legarsi agli oligomeri e impedirne la attività tossica ne risulta molto diminuita.
Il lecanemab invece mostra una maggiore affinità per alcune forme intermedie di oligomeri, dette “proto-fibrille”, rispetto alle fibrille e alle placche. Perciò, l’anticorpo potrebbe davvero ostacolare la formazione e l’azione degli oligomeri meno visibili e più dannosi. Questa potrebbe essere la spiegazione del suo maggiore impatto sul declino cognitivo, ma ulteriori studi sono necessari.
C’è un altro problema da considerare, oltre alla scarsa affinità e specificità degli anticorpi verso gli oligomeri di Ab. Tutti gli anticorpi monoclonali fino ad oggi sperimentati si legano alla proteina ma intervengono all’esterno della cellula, nonostante il primo effetto dannoso delle proteine avvenga all’interno delle cellule neuronali. Finora però ha prevalso l’approccio extra-cellulare, ed è comprensibile perché un anticorpo monoclonale non è in grado di intervenire all’interno del neurone. Così è nata una narrazione della patologia secondo cui al di fuori delle cellule le proteine aberranti inducono l’aberrazione in altre proteine, e questo sarebbe il meccanismo alla base della degenerazione. È un meccanismo reale, ed è tipico dei prioni. Questa spiegazione prevalente non tiene in dovuta considerazione l’effetto intracellulare dell’alzheimer, però è utile per accreditare l’approccio scelto finora dalle società farmaceutiche che fanno ricerca sullo sviluppo clinico di terapie per l’alzheimer.
Lo stesso problema si ha con molti studi clinici recenti, basati sull’uso di anticorpi monoclonali diretti contro la proteina tau, che è una proteina tipicamente intracellulare, e questo potrebbe spiegare i risultati insoddisfacenti che anche questi studi clinici stanno mostrando. Se si riuscisse a far legare gli anticorpi agli oligomeri di Ab (o alla proteina tau) dentro la cellula, dove esse fanno i primi danni, questi anticorpi resi intracellulari potrebbero essere molto più efficaci. È la linea di ricerca a cui stiamo lavorando noi all’Ebri.
La nostra idea è di inviare nei neuroni l’informazione genetica affinché sia la cellula stessa a sintetizzare gli anticorpi che servono, indirizzandoli esattamente dove il primo danno da parte degli oligomeri di Ab. viene fatto. Cioè, vogliamo trasportare all’interno dei neuroni il dna che codifica per l’anticorpo che si lega agli oligomeri della proteina beta-amiloide. Come “veicolo” ci sono più possibilità. Si può mettere a punto una nano-particella in grado di attraversare la cosiddetta “barriera ematoencefalica” che protegge il cervello dalle sostanze in circolazione nel sangue. Oppure si può utilizzare un lentivirus, un virus innocuo in grado di infettare i neuroni trasportando al loro interno la sequenza di dna che codifica per il gene terapeutico. Il settore dei vettori virali per il sistema cerebrale è un filone di ricerca in grandissimo sviluppo e in Italia abbiamo alcuni tra i massimi esperti mondiali in questo campo, come Luigi Naldini dell’istituto Telethon del San Raffaele di Milano. Stiamo lavorando verso una terapia genica contro le malattie neuro-degenerative, dove i geni terapeutici sono anticorpi con una specificità’ molecolare sempre maggiore e con una precisione di indirizzamento in quelle parti della cellula nervosa dove le proteine patologiche si formano e danneggiano il neurone stesso. Un approccio in cui coniughiamo la precisione molecolare con la precisione subcellulare.
All’Ebri lavoriamo anche a un altro approccio basato sul fattore di crescita nervoso, la proteina scoperta da Rita Levi-Montalcini.
No, qui all’Ebri lavoriamo anche a un altro approccio basato sul fattore di crescita nervoso (ngf), la proteina scoperta da Rita Levi-Montalcini negli anni ‘50 per la cui scoperta le è stato conferito il premio Nobel. È noto che il ngf è un fattore protettivo dei neuroni colinergici, una famiglia di neuroni che è coinvolta dalla malattia di alzheimer e quindi. Ma nel cervello di un paziente affetto da alzheimer gli oligomeri di Ab ed i grovigli neurofibrillari di tau sono presenti anche in altri neuroni sui quali ngf non potrebbe agire direttamente. Su queste popolazioni neuronali coinvolte dalla malattia questo effetto neuro-protettivo del ngf non c’è. Però negli ultimi anni abbiamo scoperto che il ngf ha recettori sulle cellule della microglia, un’altra famiglia di cellule del cervello con compiti immunitari, ed è in grado di trasformarle da cellule immunitarie a neuroprotettive. In questo modo ngf induce la microglia a proteggere e rafforzare i neuroni sofferenti a causa della neuro-degenerazione, senza generare infiammazioni. Il problema è che raggiungere il cervello è difficile, sempre a causa della barriera ematoencefalica, e la somministrazione del ngf ad alto dosaggio normalmente provoca dolore. Per fortuna, abbiamo messo a punto una forma mutante di ngf che abbassa notevolmente il dolore. Questo ci permette di somministrare dosi più elevate per via intranasale.
Per quanto riguarda gli anticorpi, siamo ancora in fase pre-clinica, cioè non sono ancora iniziate sperimentazioni sull’essere umano. Per l’ngf mutante invece è iniziato un trial di fase 1/2 al Policlinico Gemelli di Roma, in cui sarà valutata sia la tollerabilità del farmaco che la sua efficacia contro una malattia diversa dall’alzheimer come il glioma pediatrico del nervo ottico, un tumore delle vie ottiche poco frequente.
Andrea Capocci
@andcapocci
Fisico, insegnante e giornalista, Andrea Capocci ha pubblicato i libri Networkology (Il Saggiatore, 2011) e Il brevetto (Ediesse, 2012). Scrive di argomenti scientifici per il quotidiano il manifesto.
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